Il libro di questo mese parla di donne costrette ad abbandonare il loro Paese, la culla del baco da seta, mentre un'altra donna, con un'altra vita e altre aspirazioni, studiava bachi e parassiti.

 

      

      

 

 

Julie Otsuka

Venivamo tutte per mare

Bollati Boringhieri – 2012

All’inizio del Novecento, molte donne, inseguendo il sogno di trovare marito, di avviare una vita nuova, felice, ricca di gioie affettive e materiali, abbandonarono il proprio paese, il Giappone, per andare spose agli immigrati giapponesi in America.

 

Questa è la storia che Julie Otsuka ci racconta dal punto di vita di un "noi" corale, di un intero gruppo di giovani spose che del loro futuro marito conoscono solo una fotografia, molto spesso menzognera

E la vita che attende queste "spose in fotografia" non sarà mai facile, a cominciare da quel primo, arduo viaggio collettivo attraverso l'oceano. Su una nave affollata, le giovani si scambiano le fotografie dei mariti sconosciuti, immaginando insieme il futuro incerto in una terra straniera.

 

"Sulla nave tenevamo i ritratti dei nostri mariti dentro minuscoli medaglioni ovali che portavamo appesi al collo con lunghe catene. Li tenevamo dentro borsette di seta, dentro vecchie lattine di tè, dentro scatole di lacca rossa e dentro le spesse buste marroni con le quali erano stati spediti dall'America. Li tenevamo dentro la manica del kimono, che toccavamo spesso, per assicurarci che ci fossero ancora. Li tenevamo infilati tra le pagine di Venite, giapponesi!, Consigli per andare in America, Dieci modi per far felice un uomo, e di vecchi e logori volumi dei sutra buddisti, e una di noi, che era cristiana, e mangiava carne, e pregava un dio diverso dai capelli lunghi, teneva il suo fra le pagine della Bibbia di re Giacomo. E quando le chiedevamo chi le piacesse di più – l'uomo della fotografia o il Signore Gesù – lei sorrideva misteriosa e rispondeva: 'Lui, naturalmente'".

 

Poi, arrivate a San Francisco, le attendono la prima notte di nozze, il lavoro sfibrante, la lotta per imparare una nuova lingua e capire una nuova cultura, l'esperienza del parto e della maternità. Anche nella nuova terra conoscono la povertà, la fatica di lavorare incessantemente i campi, l'emarginazione e addirittura l'indifferenza o la brutalità dei loro compagni. Con il passare del tempo, tuttavia, loro e i loro mariti riusciranno a vincere la diffidenza della comunità americana: le donne verranno assunte come domestiche nelle belle ville padronali dei bianchi, mente i loro uomini diventeranno giardinieri. Altri apriranno lavanderie, ristoranti, negozi di frutta di verdura. Avranno case linde e ordinate. I loro figli, gli emigrati di seconda generazione, riusciranno ad integrarsi nelle scuole, creandosi amici tra gli americani; saranno anche apprezzati e lodati per la loro intelligenza e il loro comportamento rispettoso.

 

Ma, dopo Pearl Harbour, il Presidente Roosevelt deciderà di considerare i cittadini americani di origine giapponese come potenziali nemici e quindi verranno internate, con le loro famiglie, nelle zone più interne degli Stati Uniti, in campi allestiti in luoghi disagiati, poca acqua, molto caldo, e con l’incertezza sulla loro sorte. Abbandoneranno tutti i loro beni, lasciando un vuoto nelle cittadine in cui avevano abitato per tanti anni e in cui non faranno mai più ritorno.
Ora, la voce collettiva di queste storie attira il lettore in un susseguirsi di speranza, rimpianto, nostalgia, paura, dolore, fatica, orrore, incertezza, senza tregua.

Un libro che emoziona.

 

Lucia Ghezzi e Silvia Ronzani