Qualche nota sul “Lamento di un matematico”

 

Qualche nota sul "Lamento di un matematico"

 

di Giuliano Spirito

 

Si legge nel Lamento di un matematico: “Una ricca e affascinante avventura dell’immaginazione è stata ridotta a una sterile sequenza di dati di fatto da memorizzare e di procedure da seguire”; e poi “Se ci si concentra sul che cosa e si tralascia il perché la matematica si riduce a un guscio vuoto”; e ancora “questa enfasi sulla manipolazione accurata e senza senso di simboli…”. Chiunque si batta per una radicale innovazione della didattica della matematica non potrà non consentire con queste affermazioni di Lockhart, che ribadiscono, con la forza che discende dall’autorevolezza dell’autore, riflessioni e convincimenti ormai consolidati, scaturiti, per molti di noi, dall’esperienza sul campo. Eppure, nel Lamento, c’è qualcosa che non convince. Insomma, per vedere i limiti, i difetti, le aberrazioni della tradizionale didattica della matematica, è davvero utile e necessario far discendere il giudizio critico dall’assunto che la matematica sia essenzialmente un’arte? Nel mio piccolo, ad esempio, non sono in grado di stabilire se la Matematica con la emme maiuscola sia un’arte (non sono un matematico); né se la ricerca matematica sia ricerca artistica (non sono un ricercatore); semmai, ciò che mi sembra di poter dire, in quanto insegnante di matematica, è che il far matematica in un’aula scolastica somiglia (potrebbe e dovrebbe somigliare) a un processo in cui entrano in gioco e si sviluppano una pluralità di attitudini (curiosità, intuizione, attenzione critica, piacere di pensare, metodo, sistematicità, ecc.); esse concorrono tutte all’obiettivo di proiettare uno sguardo razionale su territori – e qui concordo con Lockhart – eminentemente scivolosi e ricchi di azzardo (non per niente la matematica è anche un gioco che si cimenta con entità immateriali e concetti astratti: una geometria che è geometria della mente, la misura degli infiniti e degli infinitesimi, della verità e della falsità, della probabilità di eventi, e così via). Mi sembra che quanto detto giustifichi ampiamente –senza bisogno di ricorrere a definizioni opinabili - la necessità e l’urgenza di un ripensamento sulla povertà di ciò che insegniamo e sulla banalità di come lo insegniamo. Il problema è che l’affermazione della natura artistica del far matematica, oltre a essere appunto una tesi discutibile giustificata in modo un po’ artificioso, è anche intrinsecamente aristocratica (e qui mi sia consentita – sempre come modesto insegnante di matematica – una punta di irritazione nei confronti del matematico di professione…). Provo a spiegarmi proprio a partire dall’esempio (la scoperta che il rapporto tra le aree di un triangolo e di un rettangolo che hanno stessa base e stessa altezza è ½, ottenuta attraverso il disegno di un opportuno segmento) che Lockhart propone. Giacché il problema è: che cosa entra in gioco nella ricerca della soluzione di un problema di questo tipo e come – se possibile - si insegna… Lockhart ci dice che non c’è esperimento che ci possa aiutare, mentre entrano in gioco “ispirazione, esperienza, tentativi ed errori, pura fortuna”, tutte cose, ahinoi, abbastanza estranee al lavoro, che è anche lavoro collettivo, ricerca condivisa, scambio tra pari, che si svolge in un’aula scolastica o in un “laboratorio di matematica”. Mi piace pensare, al contrario, che, davanti al problema proposto, a qualche alunno venga in mente di tagliare sagome di cartoncino pesante e di usare una bilancia (proprio un esperimento!), e a qualcun altro di ritagliare le figure coinvolte nel cartoncino leggero e di piegare, sovrapporre, manipolare… Questo modo di lavorare (lo definirei laboratoriale) si può sviluppare, insegnare, condividere. Ed è solo a questo punto che la ricerca della semplice e elegante soluzione sulla figura di Lockhart – seppure non sia stata già raggiunta grazie al suggerimento che deriva dal lavoro costruttivo fin qui agito – mostra il suo senso più profondo, la sua superiorità derivante dal carattere astratto e più generale del procedimento adottato. Altrimenti si rischia di lasciare i “non artisti” impotenti a contemplare con aria interrogativa la figura; e, comunque, di trascurare ancora una volta le “lacrime e sangue” di cui gronda la costruzione matematica. Infine una critica da vecchio laico: il Lamento di Lochkart mi appare figlio di un innamoramento “eccessivo”, per la matematica (“la matematica è la più pura delle arti”); preferisco presentarla ai miei alunni come uno dei modi in cui l’intelligenza umana si sforza di leggere, interpretare, elaborare le sue esperienze, le sue fantasie, gli azzardi della sua mente. Insomma: diffidare dei fondamentalismi, sempre! Si può anche morire di troppo amore e di troppa fede; quasi certamente non si è di molto aiuto e conforto a chi non condivide quel particolare amore e quella particolare fede. A volte, ad amare troppo (o a credere troppo), si corre il rischio di guardare l’intero mondo, la sua ricchezza e le sue mille sfaccettature, con le lenti un po’ supponenti e deformanti di una pur affascinante parzialità…