Una lettura del ‘Lamento di un matematico’ tra condivisione e fastidio.

 

Una lettura del "Lamento di un matematico" tra condivisione e fastidio

 

di Antonio Criscuolo

 

Di fronte all’articolo di Lockhart, che ho letto tutto di un fiato nonostante le sue lungaggini, ho provato due sensazioni forti e contrastanti.

Un senso di condivisione per la passione e le acute osservazioni con cui Lockhart sostiene l’importanza di una visione culturale della matematica e del suo insegnamento, e un senso di fastidio per come questa visione è proposta, tutta interna alla matematica intesa come arte dei matematici.

Per la mia esperienza d’insegnante - in un liceo classico P.N.I. dagli anni della prima attuazione del Piano nazionale d’informatica e, in anni più recenti, di formatore di insegnanti - la 'fotografia' che Lockhart fa dello stato dell'insegnamento della matematica vale, nella sostanza, anche per la scuola italiana.

L’eccessivo rilievo assegnato agli aspetti procedurali, formali e di calcolo della matematica, l’addestramento matematico che finisce per soffocare nella pratica scolastica la creatività e le idee forti della matematica, sono mali radicati e diffusi senza distinzioni di luogo e di tempo.

Ma se l’analisi di Lockhart individua con chiarezza i ‘sintomi’ della malattia, la sua ‘diagnosi’ mi sembra decisamente parziale e, soprattutto, la terapia proposta fuorviante e potenzialmente dannosa.

Abolizione del curriculum disciplinare, insegnanti invitati a fare "ciò che credono meglio per i loro studenti" sono ricette rischiosissime oltre che sicuramente inefficaci.

Probabilmente vanno lette come affermazioni provocatorie fatte per sottolineare la gravità della situazione e sollecitare una discussione.

Dicevo all’inizio del fastidio provato di fronte ad una visione della matematica, e del suo insegnamento, come arte dei matematici i motivi penso siano almeno due. Il primo è riconducibile alla mia storia personale, sono laureato in fisica e ho lavorato come fisico prima di scegliere l’insegnamento, non posso quindi ‘dirmi matematico’.

Il secondo è che ritengo questa visione della matematica, appunto ‘visionaria’ nel senso di irrealistica.

Un insegnante di lettere non è tale in quanto scrittore o poeta, un insegnante di filosofia non lo è in quanto filosofo, lo stesso per un insegnante di storia dell’arte o di musica.

Per l’insegnamento della matematica ciò è ancora più vero se si tiene conto che la stragrande maggioranza di coloro che insegnano matematica non hanno una formazione accademica da matematici.

E’ affascinante pensare alla disciplina di cui si è esperti come ad un’arte, un privilegio sentire e praticare il mestiere dell’insegnare come un’arte, ma per affrontare davvero i problemi dell’insegnamento, e dell’insegnamento della matematica, è necessario discuterne in termini di professionalità in tutte le sue componenti, competenza culturale-disciplinare, competenza didattico-relazionale e competenza didattico-disciplinare.

È proprio sulla competenza didattico-disciplinare, spesso considerata inutile o al più un semplice corollario della competenza disciplinare, che l’articolo di Lochkart, implicitamente, invita a riflettere con ricchezza di spunti.

Un’ultima osservazione sul rapporto tra insegnamento della matematica e mondo reale.

Non condivido la demonizzazione che Lockhart fa della matematica utile: "la gente .... è vittima dell'equivoco che la matematica sia in qualche misura utile alla società".

Ma allora non c'è matematica nella realtà ?

Contrapporre arte e realtà, creatività e routine, dilettevole ed utile, almeno per quanto riguarda l'insegnamento, penso sia una forzatura e quindi un errore.

Preferisco continuare a credere che sia necessario e possibile tenere insieme questi elementi e sopratutto cercare di insegnare una matematica che sia “utile e dilettevole”.

Utile allo studente e alla società, dilettevole per gli studenti e quindi, di riflesso, dilettevole anche per chi la insegna.