Tra matematica e fisica… nel Medioevo(parte VI)

 

Che cosa è il tempo? Quando ci si pone questa domanda, torna spesso alla memoria la situazione in cui si trovò Agostino di Ippona che, nel libro xi delle Confessioni, facendo un’analisi filosofica molto interessante del tempo, scrisse, con un po’ di imbarazzo: “Che cos’è il tempo? Chi può spiegarlo con facilità e in breve? Chi può comprenderlo nel pensiero o sentendone parlare? Ma, nel parlare, a che cosa ci riferiamo con maggiore familiarità e conoscenza che non al tempo? Certamente comprendiamo quando parliamo di esso; e comprendiamo anche quando ne sentiamo parlare da altri. Ma, allora, che cos’è il tempo? Se nessuno me lo chiede, so che cos’è; ma se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, allora non lo so. Però, con fiducia, vi dico che so che, se niente fosse accaduto, allora non esisterebbe il tempo passato; e che se niente accadrà, non esisterebbe il tempo futuro; e se niente stesse accadendo, non esisterebbe il tempo presente. Questi due tempi, perciò, il passato e il futuro, come esistono, se il passato adesso non esiste più e il futuro non esiste ancora? Se il presente fosse sempre il presente, e se non trascorresse nel passato, allora non sarebbe veramente il tempo bensì l’eternità. Se, allora, il presente, se è il tempo, viene a esistere soltanto perché trascorre nel passato, allora come diciamo che anche questo esiste, la cui causa di esistenza affinché esista è che non esisterà, cosicché noi non possiamo veramente dire che cos’è il tempo, se non che esso tende a non esistere?”.

Seguendo la filosofia operazionista, oggi affermiamo che il tempo è quella grandezza fisica che viene misurata con un orologio. Legare la nozione di tempo alla sua misurazione con l’orologio è necessario per le considerazioni moderne sul tempo nel contesto della teoria della relatività. È curioso il mostro sistema di unità di misura del tempo ancora antiquato (con 1 ora = 60 minuti = 3600 secondi, e 1 anno = 365 giorni) e il fatto che ogni tentativo di renderlo un sistema decimale non sia mai riuscito a imporsi. A parte questa stranezza, abbiamo molta familiarità con il tempo in quanto misurato con un orologio, e riteniamo che il flusso del tempo sia uniforme (alla velocità di 1 secondo al secondo).

Tornando alla Scolastica, quando Nicola d’Oresme prende in esame il tempo, non analizza il pensiero di Agostino di Ippona, ma risale nuovamente ad Aristotele. Nella Fisica, Aristotele definisce il tempo come la misura del cambiamento rispetto al prima e al dopo. Il tempo è così la misura del movimento, cioè dello spostamento nello spazio di un oggetto, oppure è la misura temporale di una reazione chimica, o della crescita nel tempo di un organismo vivente. Il cambiamento, pertanto, precede qualsiasi considerazione sul tempo, che da esso dipende. Per comodità, tra tutti i cambiamenti, la riflessione sul tempo ha privilegiato i movimenti nello spazio, ma l’analisi aristotelica del tempo si applica indifferentemente a qualsiasi tipo di cambiamento.

La definizione di Aristotele, per Nicola, è difettosa proprio nel suo aspetto fondamentale. Aristotele può trattare il tempo soltanto in presenza di un cambiamento mentre il nostro intuito ci dice che il tempo scorre anche laddove una realtà fisica non appaia soggetto ad alcun tipo di cambiamento.

Nicola definisce così il tempo come la “durata successiva delle cose” (duratio rerum successiva), indipendentemente dal fatto che le cose siano soggette o meno a un cambiamento. Il tempo viene cioè ad essere collegato all’esistenza in sé delle cose e non alle modalità e agli strumenti con cui possiamo misurare la durata della loro esistenza. Solo nel momento in cui ci poniamo il problema di misurare il tempo, di quantificarlo con un numero, solo allora possiamo, per quanto impropriamente, considerare il tempo come la misura della durata dell’esistenza delle cose.

Come misurare, quindi, la durata dell’esistenza delle cose? Oggi risponderemmo: con un orologio. La misura del tempo però è cambiata molto negli ultimi secoli e possiamo trovare strano il rapporto con il tempo che avevano i nostri antenati.

Già dall’antica Grecia, il moto per eccellenza, che poteva essere usato per una misura del tempo, era il moto dei cieli. I movimenti sulla Terra erano penalizzati da alcune caratteristiche che impedivano un loro uso ai fini della misura del tempo. Infatti, tutti i movimenti sulla Terra hanno una durata finita e irregolare: la caduta libera di un oggetto dura tipicamente pochi secondi, lo svuotamento di una clessidra poteva arrivare a tempi di un’ora, l’oscillazione di un pendolo può durare anche alcune ore, lo svuotamento di un orologio ad acqua poteva raggiungere il giorno. Alla fine, qualsiasi movimento terrestre si sarebbe interrotto. I movimenti celesti, invece, erano continui, apparentemente senza fine, e mostravano una regolarità armonica. Questa regolarità poteva non essere semplice da stabilire, ma superava di gran lunga l’irregolarità dei moti terrestri. Ad esempio, la durata del dì varia di giorno in giorno, ma è evidente il continuo alternarsi dei dì alle notti, e il continuo ripetersi delle stesse durate a un anno di distanza. I moti delle stelle, del Sole e della Luna, servirono pertanto fin dall’Antichità per la misura del tempo. Ecco perché per i nostri antenati, per esempio, il dì durava sempre 12 ore, sia in inverno sia in estate. Quanto sarebbe stato strano, per loro, considerare che il dì possa iniziare e terminare a orari differenti (quelli della levata e del tramonto del Sole) da un giorno all’altro! [continua…]

Leonardo Gariboldi